25 APRILE,INTERVENTO CONCLUSIVO DI STEFANO ROLANDO, PRESIDENTE FONDAZIONE NITTI

Porto alla conclusione di queste celebrazioni del 78° anniversario
della Liberazione, qui a Melfi, il saluto affettuoso a tutti i melfitani della Fondazione intitolata a Francesco Saverio
Nitti (che ha tra i suoi soci fondatori anche l’Associazione di cittadini intitolata a Nitti di cui sono parte un centinaio di cittadine e cittadini di Melfi), ricordando ancora una volta in questa
occasione del 25 aprile non solo lo statista che fu Nitti, che arrivò a guidare il governo italiano in uno dei più difficili momenti della storia del ‘900, tra le insorgenze sociali del dopoguerra e soprattutto nella tenaglia costituita dal massimalismo di sinistra e
l’affermazione del fascismo a destra, ma ricordando l’alto prezzo che Nitti pagò per il suo, esplicito dall’inizio, antifascismo: la casa distrutta, le minacce anche qui in Basilicata, l’esilio con tutta la famiglia che durò vent’anni, il carcere nazista durante la guerra.
Per storie come questa, migliaia di queste storie, per il sacrificio di tanti italiani durante la Resistenza, il giorno della Liberazione è diventato costituzionalmente festa nazionale.
Dunque, la banda comunale che apre i cortei in tantissimi comuni italiani, i gonfaloni di istituzioni e associazioni democratiche, i sindaci che sfilano con la sciarpa tricolore insieme ai cittadini, non sono segni retorici, non sono una pura coreografia.
Sono il rito civile che la Repubblica ha immaginato, attraverso i costituenti, per non dimenticare e per trasmettere la memoria delle determinazioni della storia.
Dopo dittatura, guerra, occupazione, guerra civile, l’Italia e l’Europa riacquistano la pace e comprendono che una cosa è il valore della parola “nazione”, un’altra cosa è il rischio funesto della parola “nazionalismo”.
Come tutti voi anch’io ero nel corteo di oggi, come quello degli anni passati.
Percepivo simboli e compostezza, pensieri e memorie.
E vedevo ai balconi anche sguardi, talvolta partecipativi, talvolta silenziosi e inerti.
C’è un’Italia che partecipa; c’è un’Italia che sta alla finestra; c’è un’Italia che prende le distanze.
Nei cortei come nelle urne, nelle celebrazioni come nel dibattito pubblico, giovani e meno giovani rappresentano valori ma anche si astengono dal tenerne viva la memoria.
Ecco perché istituzioni e sistema educativo, insieme ai media, hanno il compito di tenere attive le condizioni per sapere, per valutare, per partecipare.
Aver sentito qui un attimo fa gli argomenti dei giovanissimi è incoraggiante, avere visto le scuole attive e creative attorno al tema della crisi delle libertà e dei diritti umani e civili nel mondo è confortante. Ma il dato di incomprensione, di astensione, di confusione sul senso della storia che ci circonda deve farci interrogare a fondo.
Abbiamo avuto notizia questa mattina – io ho potuto solo leggere frammenti riportati in rete, non tutto – della dichiarazione della presidente del Consiglio sulla “incompatibilità con qualsiasi nostalgia del fascismo”. Una dichiarazione in sé accettabile, che pare ancora con sfumature attorno non chiare (libertà non liberazione, patrioti non partigiani, eccetera). In
ogni caso che fa sperare almeno sugli elementi fondamentali un allineamento di posizione almeno di chi ricopre alte funzioni istituzionali.
Limiterò a due argomenti di testimonianza il senso di attualità del fare insieme “rito civile” non solo per dare corpo al pensiero collettivo, ma per rivivere il rischio, il coraggio, la visione di chi ha pagato alti prezzi per consentirci oggi la libertà di votare, scegliere,
discutere, dissentire.
C’è un episodio del dibattito in età repubblicana su fascismo e antifascismo che spiega con la comprensione di tutti la sostanza del problema storico. Vittorio Foa, esponente del Partito di Azione nel CLN, risponde al sen. Giorgio Pisanò, eletto nel gruppo del Movimento Sociale Italiano. “Vedi, la questione è semplice. Se vincevate voi io sarei finito in galera, ma siccome abbiamo vinto noi tu sei senatore della Repubblica”.
E su questa scia porto qui in conclusione la testimonianza di Maria Luigia Baldini Nitti – figlia di Nullo Baldini e nuora di Francesco Saverio Nitti – che è stata vicinissima alla creazione della nostra Fondazione di cui è stata presidente onoraria, incarcerata a Ravenna perché figlia del capo socialista della cooperazione italiana e poi in esilio a Parigi per lunghi anni, leggendovi alcuni passi di una sua lettera del 1983 al giornale Il Nuovo Ravennate in
risposta al consigliere comunale dell’MSI Gianguido Reggiani che l’accusava pubblicamente di discriminazione perché “non disposto – scriveva lui a quel giornale – a rinegare il passato
per opportunismo”.
Ecco la risposta della “Pimpa” (questo il suo popolare soprannome) all’esponente del Movimento Sociale:
“Per avere conosciuto sulla mia pelle il significato esatto della parola ghettizzazione (che lei usa) non accetterò mai che ogni persona umana non venga rispettata come tale e non goda
dei diritti civili. Questo qualunque sia la sua etnia, fede politica, religione. In questo senso non credo che lei possa considerarsi “ghettizzato”. Lei può girare per le vie senza vedere gente che scantona per non incontrarla. O conoscenti che fingono di non vederla e cambiano marciapiede. Lei può esercitare liberamente la sua professione di avvocato, allora che io – che pure mi ero laureata con la media del trenta e lode e tre lodi, di cui una in diritto civile, l’altra in diritto romano e ricevuto il premio “Vittorio Emanuele II” per la miglior tesi dell’anno nella facoltà di Giurisprudenza – non potei divenire procuratrice legale perché non
iscritta al fascio. Lei può viaggiare all’estero ogniqualvolta questo le piaccia. Io ebbi rifiutato per anni il passaporto e per tutti quegli anni girai, nel timore di un mio espatrio clandestino, continuamente seguita da un agente di polizia che mi sorvegliava a vista, entrava con me nelle case in cui mi recavo e fin dentro la stanza in cui ero, dormiva davanti alla porta della stanza d’albergo in cui soggiornavo e una volta pretendeva di entrare con me nello spogliatoio di una sartoria. Se questo non significasse mettere al bando della società, lo domando a lei. E al contempo mi permetto di farle presente che tali vessazioni non sono oggi esercitate verso sia pure un solo aderente al Movimento Sociale Italiano. Inoltre, lei è stato liberamente eletto.
Deputati e Senatori dell’MSI siedono nel Parlamento repubblicano, prendono parte alle sue commissioni. Nessuno dei diritti civili riconosciuti agli italiani dalla Costituzione vi viene negato e la parità dei diritti che ogni minoranza deve godere è oggi rispettata. Lei mi chiede se non ritengo che già troppo sangue italiano sia stato versato e da una sole delle parti. Le rispondo che non ho mai accettato il mito soreliano della violenza. Dalla violenza sono stata
vaccinata in gioventù, quando udii le grida di chi veniva selvaggiamente percosso e conobbi persone che poi vennero uccise da scherani fascisti. Per me la violenza, di qualunque colore si ammanti, è cosa abominevole ed è indice di quella mentalità fascista che esaltò, praticò ed insegnò la violenza gli italiani. Se ritengo che la situazione attuale del Paese richieda la collaborazione sincera e senza remore dei partiti politici smussando gli angoli di quanto li divideva, ritengo questo limitatamente ai partiti che accettano apertamente i principi della Costituzione repubblicana”.
Restano questi, a mio avviso, parametri validi di giudizio per la storia e per il presente. Per le vicende nostre interne e per le sofferenze di altri Paesi. In un epoca in cui persino una guerra ingiusta torna a mostrare che in Europa il diritto non ha debellato la violenza per sempre.

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